Pagine

venerdì 29 ottobre 2010

La Treccani, il romanesco e la pubblicità attuale

In qualità di specialista di romanesco (o romanaccio che dir si voglia), propongo una decrittazione dello spot[1] qui sotto, per il quale una sola parola al giorno non basterà a togliersi il prof di torno...

Antefatto: le due protagoniste del video qui riproposto non sono attrici professioniste, bensì due ragazze romane che si esprimono esattamente come sono nella vita comune, balzate agli onori (si fa per dire) della cronaca per essere così, terra-terra (anzi: tera-tera).

Tutto nasce da un video (che non trovo più, ci sono varie clip che faranno seguito all'originale "tormentone" estivo; ne metto una: clicca qui) diventato famosissimo in tutta Italia e confesso che non ho ancora capito perché.

Le due ragazze si chiamano Deborah e Romina, nomi sui quali spesso si è fatta ironia (Deborah, Samanta, Tatiana, etc.).

Arriva la Treccani, tempio dell'italiano perfetto e che cosa fa? Le prende, le assume e fa girare loro uno spot. Andiamo a vederlo.




Titolo: Cartolina d'ammmore (con due, tre, quattro emme, secondo la pronuncia romana che a volte triplica le consonanti e altre volte le decapita)

Dialogo:

Romina e Debora (con o senza acca?) in un attimo di relax, lontane dalla colla (= sudore), biretta e calippo, si accingono a mandare una cartolina da un baretto di Ostia, sul litorale romano (o quello che rimandono le foto incollate a una cabina-garitta?).
Che cosa stiano bevendo non si sa, non è la pubblicità né di birre né di cocacole.
Abbigliamento tipico delle ragazze giovani, tutte in tono, con una punta di colore (viola fucsia per una, giallo arancio per l'altra).
In realtà è solo una che decide di scrivere una cartolina al suo innamorato (che je scrivo ar mi' ragazzo?), l'altra,  intenta a trafficare col suo cellulare, suggerisce che un sms sarebbe (stato) meglio.
Ma non è altrettanto romantico.
E dunque, ecco il testo originale:

Ciao amò. Me manchi 'na cifra. Appena torno, t'mparo perché.

Traduzione per gli «allofoni»[2]: 
Ciao, amore. Mi manchi tantissimo. Appena torno, te ne dirò il motivo[3].
Nel frattempo la scrivente si lamenta: il ripiano del tavolo «è pieno dde bozzi» (= sconnesso, non liscio) e non può scrivere agevolmente la sua cartolina.

Giunge a proposito l'omino (stereotipo dell'uomo-libro) della Treccani,  figura a mezza strada tra l'omino Bialetti e il Mr. Brown delle Iene. Ben accetto, ma  non perché propositore di parole ben scritte e/o di sinonimi, no. Ben accetto, perché il suo dizionario permetterà a De(b)bora(h) o a Romina (sono certa che imparerò a distinguerle) di avere una base per scrivere senza intoppi (si fa per dire).

Indispettito, l'omino se ne va e le ragazze concludono la loro performance discettando della tristezza di una biro nera al posto di una più allegra fucsia.

Riflessione: Siamo sicuri che tale pubblicità raggiunga il suo scopo?
Perché se il target (il pubblico-bersaglio) è composto da 

  1. giovani romani tipo le due protagoniste: non c'è bisogno di comprare un dizionario per trovare un supporto liscio. E comunque a quel punto, meglio un sms
  2. giovani non romani: a) non capisco che dicono b) abbasso i romani c) che c'entriamo noi con queste due?
  3. romani e non romani:  ci sfottete e dovremmo pure comprare il dizionario?
  4. romani e non romani: non siamo coatti, noi!
  5. carino, simpatico. Punto.
Spot = business = vendita

Uno spot bellino e divertente (ammesso che lo sia) e che non vende (perché non vende, a mio modo di vedere) è uno spot sbagliato.

Questo spot è tutto giocato sugli stereotipi anche se attuali, basato su una comicità grassa, quella che proviene dal dialetto, o meglio, basato sulla "coattaggine" (o coatteria) del dialetto romanesco. Con anche un giudizio (implicito) moralizzante sulle due ragazze, scommette sul fatto che chi guarda non si senta come loro.

Ma chi ne esce vincitore? E c'è qualcuno che ci guadagna (non in senso monetario) in questo spot, quanto a immagine?

Dite che il target sono i babbioni, i genitori, i radical-chic, i proff, gli intellettuali, quelli che l'italiano lo conoscono bene?
Sentite a me: non lo comprano neppure loro (forse ce l'hanno già).

_______________
[1] spot. È la parola ancora correntemente usata e che va a sostituire altri foriesterismi (ormai stantii) come réclame o break, per esempio. In genere spot sottintende l'aggettivo pubblicitario. Ma esistono anche gli spot intesi come riflettori, punti luce in una casa o in un altro ambiente chiuso, in un set cinematografico.
[2] allofono.  Lo uso nel senso (libero) di "gente che parla altro idioma" (in questo caso:  diverso dal romanesco).
[3] In realtà, c'è anche il fatto che lei dica *t'imparo* invece di *t'insegno*. Ma tanto sarebbe stato de-contestualizzato anche "ti insegno perché".

venerdì 8 ottobre 2010

Storia della parola "vaglio" e suo utilizzo

Oggi, mentre leggevo un romanzo, la mia attenzione si è appuntata su questo passaggio:

Come la febbre mi lasciò fui ricondotto alla mia cella: ero così estenuato che da allora ci vissi senza ripugnanza. Il dottor Petti, medico del carcere, mi aveva raccomandato di prendere aria quanto più potessi, ma io non avevo forze bastanti per scendere nel "vaglio", il cortiletto dove ci era concesso di camminare su e giù come tristi belve in gabbia...

Il vaglio. E mi è venuto in mente quante volte diciamo (o sentiamo dire): passare al vaglio, la dichiarazione è al vaglio degli inquirenti... 
Ma che cos'è il vaglio?

Ho come al solito consultato il dizionario etimologico, scoprendo una volta di più che usiamo le parole correttamente, ma non sempre con cognizione di causa:


Insomma, una sorta di setaccio. E quindi di significato traslato in significato traslato, il cortiletto dei detenuti del romanzo che sto leggendo, doveva essere così stretto da assomigliare a un crivello, un setaccio.

crivello del XIX secolo (Castelvenere, Benevento)


Il romanzo in questione è Noi credevamo di Anna Banti.

sabato 10 luglio 2010

Storia di una parola: sciuscià


Solo i giovanissimi italiani oppure degli stranieri che non amino il cinema neorealista italiano possono ancora ignorare l'esistenza della parola *sciuscià*.

Ora non si usa più, ma nell'immediato dopoguerra, quando le truppe alleate erano stanziate o semplicemente attraversavano la penisola italica, era invalso questo mestiere, quello dello sciuscià.

Si tratta di un calco (deformato) di shoe-shine (americano), che i giovanissimi ragazzi italiani sentono come Sciù-sciai poi apocopato in > sciuscià.

De Sica - come vuole il neorealismo - trasferisce subito sullo schermo questa realtà, anche perché lo sciuscià è solitamente giovanissimo, poco più che un bimbo.

Con la partenza degli americani, il termine che rimase a designare tale lavoro fu lustrascarpe.

venerdì 9 luglio 2010

Femmina vs Donna: divagazione sul tema




Bimba, bambina, ragazzina, ragazzetta, ragazza, fanciulla (fanciullina), giovane donna, donna.



E femmina, allora?

Prendo spunto da una conversazione privata per cercare di spiegare brevemente come quando e perché si utilizza un termine piuttosto che un altro, quando come e perché uno dei due termini, femmina, può essere avvertito (anzi, è avvertito) come un insulto.

Aiutiamoci come al solito con l'etimologia.

Femmina < dal lat. foemina femina (colei che allatta, che nutre, che genera, che partorisce)


Femminuccia (inteso come debole), femminile, femminista/femminismo, femminiello < FŒMINA



Donna < dal lat. domina (signora)

 
Madonna, donzella, dama e damigella < DOMINA (non mi soffermo né su Dante né sul Dolce Stil Novo, tantomeno sui Preraffaelliti)


La disparità tra i sensi che si vogliono dare (o che stanno proprio dentro) alle parole è evidente.
Per questo motivo, in un tempo per fortuna ormai lontano, la parola femmina veniva usata dagli uomini (padri, fratelli, mariti, fidanzati e cugini; talvolta anche da donne) per rimettere a posto, ricondurre e sminuire (rabaisser, fr.) una donna: sei solo una femmina.
Come se il termine femmina fosse un disvalore, qualcosa di passivo.

Come sempre accade, i movimenti che nascono sull'onda di un momento critico assumono pienamente la parola in questione. Penso al Decadentismo. Penso all'Impressionismo.
E penso pure al Femminismo. Ma parlarne esula dalla mia volontà.

Tuttavia, *femmina* è DELIBERATAMENTE accettato e VOLONTARIAMENTE rivendicato in tali contesti (e neanche sempre, parlo in generale, eh):

1. al caldo sotto le coperte e al fresco tra le lenzuola (chi vuol intender, intenda)



2. volendo esasperare la propria femminilità (sono femmina caliente, per esempio)
3. in contrapposizione alla parola *maschio*



4. nella designazione del sesso di un bebè: è una femmina!, è una femminuccia (ricorderete il film: Speriamo che sia femmina).
E chi più ne ha, più ne metta.



__________________

il simbolo < significa: *viene da*,  *deriva da*
il simbolo > significa: *si trasforma in*, *dà*

domenica 4 luglio 2010

C'entra o non c'entra?

Mi è capitato di leggere (più volte) : "non centra niente (questo tuo commento con quel che è l'oggetto blablabla)..." Mi è anche capitato che fossero persone colte a scrivere questo. Dubbio amletico?



No. Si scrive: [non] c'entra (da: entrarci) con questi significati.
entrarci / non entrarci
1 avere o non avere attinenza con qlco
- "Quel che dici non c'entra proprio con l'argomento." - "Certo che c'entra!"
2 avere o non avere a che fare con qlco
Io non c'entro niente con questa faccenda.
che è cosa diversa da [non] centra (centrare).

Ponetevi attenzione, per favore.

mercoledì 23 giugno 2010

Un caso di pseudoidentità di significato: serio vs serioso



Mentre leggevo On n'y voit rien, un testo del compianto Daniel Arasse (uno storico dell'arte), trovo questa frase:


«Ce ne serait pas sérieux. Serio ludere, "jouer sérieusement", tu connais pourtant ce proverbe  de   la  Renaissance (...). On dirait que, pour être sérieuse, tu devrais te prendre au sérieux,  être seriosa et non seria comme vous dites en italien (...). Toi, Giulia, seriosa? Par pitié !»[1].

No, mi dispiace, Daniel Arasse: serioso non significa prendersi sul serio, in italiano. Nessuno di noi si autodefinirebbe (per giunta come complimento) come serioso o seriosa. Mai e poi mai.


Aggiungo che sono gli altri che ci attribuiscono eventualmente tale atteggiamento: serioso/seriosa. 
E che è sempre e solo un atteggiamento superficiale e che inficia la reale serietà di una persona.

 

Rouault
________
[1] «Non sarebbe serio. Serio ludere, "giocare seriamente", eppure lo conosci questo proverbio del Rinascimento (...). Si direbbe che, per essere seria, tu dovresti prenderti sul serio, essere seriosa e non seria, come dite voi in italiano (...). Tu seriosa? Pietà!», in: Daniel Arasse, On n'y voit rien, Paris, Folio essais, 2000, p.13. Mia la traduzione. Esiste la versione in italiano, dal titolo Non si vede niente.

sabato 19 giugno 2010

La storia di una parola: nostalgia

Nostalgia (1) viene dal greco “nostos” “ritorno” e “algos” “dolore”, ma è un greco di conio moderno; alsaziano per la precisione. Il primo ad aver usato il termine è tale Johannes Hofer, laureando in medicina originario di Mulhouse, nel 1688. 

Argomento della sua tesi di laurea era quella malattia che spesso coglieva gli svizzeri durante il servizio militare in eserciti stranieri. E’ solo alla fine dell’Ottocento che tale termine esce dai confini medici, più precisamente nel 1874.





Lo ritroviamo come titolo di un poemetto carducciano (Nostalgia, 1874), in cui il poeta ritorna col pensiero alla Maremma e alla sua adolescenza. Se in Malombra (1881) di Fogazzaro, la “nostalgia” è uno stato d’animo di profonda tristezza per la patria lontana (nel romanzo, è la moglie di Steinegge che a New York si ammala di nostalgia), in tempi più moderni, “nostalgia” accoglie, unendoli, due significati: unisce al vagheggiamento della terra perduta anche il sentimento di malinconia struggente per un’epoca che non c’è più o meglio per la giovinezza ch’era in essa contenuta, fino ad accogliere anche l’accezione negativa in senso politico.

Se torniamo al significato introdotto da Giosuè Carducci nel suo poemetto, ci si rende conto che nostalgia è la mancanza di qualcosa che non fa più parte del presente durativo dell’esistenza di un individuo: terra lontana, passato, gioventù, sogni e speranze, mettono in moto la memoria e con essa il tentativo di recuperare quel che è perduto, fissandolo sulla pagina scritta. Ma quanto più è lontano nel tempo quel che si vuole recuperare con la memoria, tanto più difficile risulterà l’oggettivazione di tale operazione (2).

______________________

(1) Cfr. Cortellazzo-Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, 3/I-N. Bologna, Zanichelli, 1983, p. 810.
(2) Le informazioni sono tratte da « La memoria ritrovata in Cesare Pavese. Riflessioni su La luna e i falò a confronto con Il Quartiere di Vasco Pratolini», in :  Jacqueline SPACCINI, Aveva il viso di pietra scolpita. Cinque saggi sull'opera di Cesare Pavese. Roma, Aracne editrice, 2010, pp. 15-16.

Scusa, scusi: quale usare?




Quando uno non capisce quel che gli vien detto o richiesto, in italiano si può rispondere (con una domanda)  in vari modi. 

Tuttavia, i modi non sono socialmente sinonimici.

Ecco qualche esempio:

Scusa? Scusi? (a volte anche Pardon?)

è la forma più gentile, formale, corretta.

Come (, scusa/scusi)? 

nello standard, è  la forma più usuale

a) Che? 
b) Che cosa?
c) che hai detto?  (slang romano: c'haj detto?)

nel parlato,  nella lingua familiare, è assolutamente la forma più usata. Presuppone una certa confidenza, altrimenti è una risposta maleducata.

L'importante è saperlo.



martedì 27 aprile 2010

L'errore del capitano Archie Hicox

Il film Ingloriousus  Basterds di Quentin Tarantino mi offre la possibilità di parlare di gesti. Più particolarmente, dei gesti delle dita che indicano i numeri e che come sappiamo (ma la mia è una conoscenza molto limitata) rivelano un'identità se non proprio nazionale, comunque per gruppi di aree geo-linguistiche.

Veniamo al film. Nella sequenza girata in una bettola, tre falsi ufficiali tedeschi (uno solo di loro è realmente tedesco) incontrano un'attrice tedesca (Diana Kruger) che è una spia degli Alleati. Il luogo si scopre essere frequentato da soldati e soprattutto da un attento nazista  in grado di riconoscere dall'accento dell'interlocutore  la sua provenienza geografica.

Il capitano Archie Hicox (un critico cinematografico sopraffino nel suo Paese, il Regno Unito), incaricato dell'Operazione KINO, è vestito di tutto punto come capitano germanico, ne ha persino la faccia e parla correntemente il tedesco (per me, lo parla benissimo), ma non convince un "vero" tedesco come l'ufficiale della Gestapo.

Alla domanda Lei, Capitano, da dove proviene?,  riesce a cavarsela declinando i suoi natali in un remoto (probabilmente inventato) paesino montano (penso a certi italiani del Trentino Alto Adige che quando parlano italiano sembrano austriaci)... Ma poi commette un errore grave, questo:



Vedete le dita? Ha appena ordinato tre whisky. Ha sollevato l'indice, il medio e l'anulare.

lunedì 26 aprile 2010

Congiuntivo o condizionale?

Molte persone sbagliano l'uso del condizionale, usandolo al posto del congiuntivo.

Ne ho avuto riprova proprio quest'oggi, alla tv. Durante la Prova del cuoco, ho sentito lo chef Gianfranco Vissani inciampare su questo tipo di errore, errore che è dovuto alla presenza della congiunzione *se*.

Allora, ne approfitto per fare un po' di chiarezza:


Mi chiedo se andrei fino in fondo a questa vicenda 

Non so se vorrei vivere una vita con te

  • Come vedete, *se* vuole il condizionale quando segue un verbo che introduce la frase interrogativa o dubitativa.
            Complichiamo:
     Mi chiedo che cosa farei se dovessi mostrare un briciolo di coraggio
          Ti chiese se saresti andato fino in fondo

    Nel primo caso abbiamo il verbo interrogativo pronominale CHIEDERSI seguito da *che* + condizionale
    (presente come è al presente - indicativo - il verbo della principale) e poi un se che significa *qualora*, *nel caso in cui* e che esige il congiuntivo (esprime un'ipotesi)

    Nel secondo caso abbiamo il verbo CHIEDERE  seguito da *se* + condizionale (passato come è al passato - remoto dell'indicativo - il verbo della principale).


    Benedetto periodo ipotetico! Ma qual è il periodo ipotetico?

    venerdì 9 aprile 2010

    Giochi di mano, giochi da... Cappotto!

    I bari di Caravaggio

    Oggi, due espressioni legate a giochi . Giochi di carte, ma anche altri tipi di giochi.

    ==================================================
      fare cappotto


     ==================================================

    Innazitutto: che cosa significa? 
    Chi usa l'espressione "[Ho/Abbiamo fatto] cappotto!", sta dicendo che ha vinto, stravinto, contro un avversario che non è riuscito neppure a fare il punto dell'onore.
    E allora che cosa c'entra il cappotto? Nulla.

    È una storia complessa di calchi linguistici e di allegra confusione. Speriamo di riuscire a farci capire. La parola viene dal francese *capot*. Non ha nulla a che vedere con il cappotto nostrano (o meglio, anticamente un capot era un mantello con cappuccio) bensì con i giochi di carte. 

    Solo che esiste la posizione passiva di *capot* . Colui che a carte è capot, potremmo dire che è K.O., cioè non ha vinto neanche una mano. Quindi, chi vince tutte le mani e non concede nulla all'avversario, lo rende, lo fa capot. Faire capot quelqu'un

    A questo punto, in Italia, probabilmente nel francesissimo '700, si prende l'espressione quale essa è e si fa un calco. *Faire capot* diventa *fare cappotto*. Ma l'indumento non c'entra nulla.


    Continuando a giocare a carte, per esempio a «Sette e mezzo» (leggi qui le regole se non le conosci), può capitare che un giocatore dica: *Ho sballato*. 

    ==================================================
    sballare

    balle di fieno
    =================================================
    Sballare significa superare il punto (in questo caso: sette e mezzo) che si deve raggiungere. Se si fa 7 non si sballa, se si fa 8, 15, 20 - insomma qualunque somma superi il 7 e mezzo,  si sballa.
    Ma c'entrano le balle (cfr. foto qui sopra)?
    Sì, nel senso di disfare la balla (ma quella di tela, non quella di fieno della foto), come se con quest'atto si perdesse tutto e quindi si fallisse (almeno questo è quanto attesta il dizionario etimologico). 
    In realtà, il nostro concetto di sballare è tutto come se la balla fosse una misura contenitrice e la "s" iniziale ne indicasse l'esondazione, la fuoriuscita, la dismisura. 
    Va di sé che chi sballa, non vince.
    Poi, c'è lo sballo che nulla ha (a) che vedere con il gioco. È il divertimento basato su sbronza o droga. Oppure le due cose insieme. Meglio evitare, magari.



    lunedì 29 marzo 2010

    Gitano, zingaro, rom o tzigano?


    Preparo una lezione su un libro di Antonio Tabucchi, La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997, Feltrinelli), il quale esordisce così:

    «Manolo il Gitano aprì gli occhi, guardò la debole luce che filtrava dalle fessure della baracca e si alzò cercando di non fare rumore. Non aveva bisogno di vestirsi perché dormiva vestito, la giacca arancione che gli aveva regalato l'anno prima Agostinho da Silva, detto Franz il Tedesco, domatore di leoni sdentati del Circo Maravilhas, ormai gli serviva da vestito e da pigiama. Nella flebile luce dell'alba cercò a tentoni i sandali trasformati in ciabatte che usava come calzature. Li trovò e li infilò. Conosceva la baracca a memoria, e poteva muoversi nella semioscurità rispettando l'esatta geografia dei miseri mobili che la arredavano. Avanzò tranquillo verso la porta e in quel momento il suo piede destro urtò contro il lume a petrolio che stava sul pavimento. Merda di donna, disse fra i denti Manolo il Gitano. Era sua moglie, che la sera prima aveva voluto lasciare il lume a petrolio accanto alla sua branda con il pretesto che le tenebre le davano gli incubi e che sognava i suoi morti. Con il lume acceso basso basso, diceva lei, i fantasmi dei suoi morti non avevano il coraggio di visitarla e la lasciavano dormire in pace.
    -Che fa El Rey a quest'ora, anima in pena dei nostri morti andalusi?
    La voce di sua moglie era pastosa e incerta come di chi si sta svegliando. Sua moglie gli parlava sempre in geringonça, un miscuglio di lingua dei gitani, di portoghese e di andaluso. E lo chiamava El Rey. La voce di sua moglie era pastosa e incerta come di chi si sta svegliando. Sua moglie gli parlava sempre in geringonça, un miscuglio di lingua dei gitani, di portoghese e di andaluso. E lo chiamava El Rey».


    Giusto per raccapezzarci un poco sull'uso odierno di alcune parole in Italia...

    Le parole che in Italia servono a denominare un certo gruppo di persone sono : zingaro, rom, nomade, gitano, tzigano (più raro: zigano). Sono messi in ordine di diffusione nell’uso comune, ma non tutti sono politically correct. Da ricordare comunque che vengono usati un po’ tutti, questi termini. Gitano e tzigano sono usati in senso poetico. Rom è un termine usato spesso in campo giudiziario. Nomade in campo giornalistico. Zingaro è trans-settoriale.

    Zingaro

    zingaro [zìn-ga-ro] s.m. (f. -ra)

    1 Appartenente a un gruppo etnico originario dell'India, stanziatosi successivamente anche in Europa e nel resto del mondo, che conduce vita perloppiù nomade: accampamento di zingari

    2 In similitudini e usi fig., persona girovaga, incline o soggetta a continui cambiamenti di sede: condurre una vita da z.; con valore spreg., persona dall'aspetto trascurato: così disordinato, sei proprio uno zingaro!

    • dim. zingarello

    • sec. XV

    è spesso usato in senso dispregiativo o comunque negativo; in realtà, il termine è quello con il quale si auto-designano coloro i quali vivono stanzialmente in Italia e che possiedono case.[1]

    Rom (apocope della parola “romanì”) sono gli zingari nomadi provenienti dalla Romania (o dalle cosiddette zone balcaniche).

    Nomade: termine generale per indicare gli zingari che non sono stanziali, quelli che si muovono su roulotte (ci sarebbe tanto da dire sulla differenza tra caravane e roulotte, mais laissons)

    Gitano: (specifico) zingaro originario della Spagna

    Tzigano: (specifico) zingaro della zona danubiana, solitamente suona il violino (violino tzigano).

    Quindi il fatto che Tabucchi abbia scelto il termine gitano è perfettamente adeguato, trattandosi di uno zingaro proveniente dalla Spagna che vive in Portogallo (comunque nella penisola iberica). [2]



    ------------

    [1] Almeno, secondo quanto mi fu detto dagli zingari Casagrande, alcuni dei quali frequentavano un liceo in cui ho insegnato alcuni anni fa.

    [2]Che a Tabucchi stia particolarmente a cuore la sorte degli zingari, lo prova anche un testo da lui pubblicato due anni dopo, nel 1999, dal titolo: Gli Zingari e il Rinascimento; sottotitolo: vivere da rom a Firenze (Un libro a mezza strada tra il reportage e il pamphlet).


    venerdì 19 marzo 2010

    Ma che cavolo...?


    cavoli

    Espressione ricorrente, se vogliamo eufemistica, sostituisce una parolaccia (*cazzo*). Prevalente sugli altri termini sostitutivi (càppero, càcchio e càspita), viene convocato generalmente in queste situazioni:

    • ma che cavolo... vuoi/dici/fai? La presenza dell'ortaggio indica rimprovero

    • e che cavolo (anche nella versione radical-chic: ecchecavolo). Il rimprovero è mitigato, si dice in genere a guaio (altrui) già commesso, a mo' di commento.

    • cavoli! Può essere un'espressione di ammirazione

    • che frase del cavolo! Rimprovero

    • col cavolo che ... lo dico/lo faccio/ te lo/la do, etc (Qualunque verbo e qualunque persona). Non importa quale cosa gli altri si attendano da noi: questa cosa (dire, fare, dare, etc.) non arriverà!
    • Forma anche il verbo (su *incazzarsi): incavolarsi. Es.: Ora m'incavolo; mi sono incavolato; s'incavoleranno, etc. (forma tiepida - e comunque educata - dell'arrabbiatura)

    • E mo' son cavoli tua/mia! (espressione dell'Italia centrale): annuncia guai, problemi
    • Son cavoli... come sopra (ma l'espressione percorre tutta la penisola ed è italiana)


    Ricordo dunque che cavolo sostituisce il genitale maschile espresso in termini volgari, e che si introduce per dare un po' d'enfasi al discorso, esprimendo lo stato d'animo di colui/colei che vi fa ricorso.



    Già che ci sono, ricordo che per quanto riguarda l'ortaggio, ne esistono varietà molteplici: il cavolo verza, cappuccio, broccolo, nero, cinese, i cavoletti di Bruxelles, cavolfiore, i broccoletti.
    Broccolo e broccoletti... ora che ci penso, danno luogo a una espressione figurata.
    Ma questa è un'altra parola.