Solo i giovanissimi italiani oppure degli stranieri che non amino il cinema neorealista italiano possono ancora ignorare l'esistenza della parola *sciuscià*.
Ora non si usa più, ma nell'immediato dopoguerra, quando le truppe alleate erano stanziate o semplicemente attraversavano la penisola italica, era invalso questo mestiere, quello dello sciuscià.
Si tratta di un calco (deformato) di shoe-shine (americano), che i giovanissimi ragazzi italiani sentono come Sciù-sciai poi apocopato in > sciuscià.
De Sica - come vuole il neorealismo - trasferisce subito sullo schermo questa realtà, anche perché lo sciuscià è solitamente giovanissimo, poco più che un bimbo.
Con la partenza degli americani, il termine che rimase a designare tale lavoro fu lustrascarpe.
Bimba, bambina, ragazzina, ragazzetta, ragazza, fanciulla (fanciullina), giovane donna, donna.
E femmina, allora?
Prendo spunto da una conversazione privata per cercare di spiegare brevemente come quando e perché si utilizza un termine piuttosto che un altro, quando come e perché uno dei due termini, femmina, può essere avvertito (anzi, è avvertito) come un insulto.
Aiutiamoci come al solito con l'etimologia.
Femmina < dal lat. foemina femina (colei che allatta, che nutre, che genera, che partorisce)
Femminuccia (inteso come debole), femminile, femminista/femminismo, femminiello < FŒMINA
Donna < dal lat. domina (signora)
Madonna, donzella, dama e damigella < DOMINA (non mi soffermo né su Dante né sul Dolce Stil Novo, tantomeno sui Preraffaelliti)
La disparità tra i sensi che si vogliono dare (o che stanno proprio dentro) alle parole è evidente.
Per questo motivo, in un tempo per fortuna ormai lontano, la parola femmina veniva usata dagli uomini (padri, fratelli, mariti, fidanzati e cugini; talvolta anche da donne) per rimettere a posto, ricondurre e sminuire (rabaisser, fr.) una donna: sei solo una femmina.
Come se il termine femmina fosse un disvalore, qualcosa di passivo.
Come sempre accade, i movimenti che nascono sull'onda di un momento critico assumono pienamente la parola in questione. Penso al Decadentismo. Penso all'Impressionismo.
E penso pure al Femminismo. Ma parlarne esula dalla mia volontà.
Tuttavia, *femmina* è DELIBERATAMENTE accettato e VOLONTARIAMENTE rivendicato in tali contesti (e neanche sempre, parlo in generale, eh):
1. al caldo sotto le coperte e al fresco tra le lenzuola (chi vuol intender, intenda)
2. volendo esasperare la propria femminilità (sono femmina caliente, per esempio)
3. in contrapposizione alla parola *maschio*
4. nella designazione del sesso di un bebè: è una femmina!, è una femminuccia (ricorderete il film: Speriamo che sia femmina).
E chi più ne ha, più ne metta.
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il simbolo < significa: *viene da*, *deriva da*
il simbolo > significa: *si trasforma in*, *dà*
Mi è capitato di leggere (più volte) : "non centra niente (questo tuo commento con quel che è l'oggetto blablabla)..." Mi è anche capitato che fossero persone colte a scrivere questo. Dubbio amletico?
No. Si scrive: [non] c'entra (da: entrarci) con questi significati.
entrarci / non entrarci
1 avere o non avere attinenza con qlco
- "Quel che dici non c'entra proprio con l'argomento." - "Certo che c'entra!"
Mentre leggevo On n'y voit rien, un testo del compianto Daniel Arasse (uno storico dell'arte), trovo questa frase:
«Ce ne serait pas sérieux. Serio ludere, "jouer sérieusement", tu connais pourtant ce proverbe de la Renaissance (...). On dirait que, pour être sérieuse, tu devrais te prendre au sérieux, être seriosa et non seria comme vous dites en italien (...). Toi, Giulia, seriosa? Par pitié !»[1].
No, mi dispiace, Daniel Arasse: serioso non significa prendersi sul serio, in italiano. Nessuno di noi si autodefinirebbe (per giunta come complimento) come serioso o seriosa. Mai e poi mai.
Aggiungo che sono gli altri che ci attribuiscono eventualmente tale atteggiamento: serioso/seriosa.
E che è sempre e solo un atteggiamento superficiale e che inficia la reale serietà di una persona.
Rouault
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[1] «Non sarebbe serio. Serio ludere, "giocare seriamente", eppure lo conosci questo proverbio del Rinascimento (...). Si direbbe che, per essere seria, tu dovresti prenderti sul serio, essere seriosa e non seria, come dite voi in italiano (...). Tu seriosa? Pietà!», in: Daniel Arasse, On n'y voit rien, Paris, Folio essais, 2000, p.13. Mia la traduzione. Esiste la versione in italiano, dal titolo Non si vede niente.
Nostalgia (1) viene dal greco “nostos” “ritorno” e “algos” “dolore”, ma è un greco di conio moderno; alsaziano per la precisione. Il primo ad aver usato il termine è tale Johannes Hofer, laureando in medicina originario di Mulhouse, nel 1688.
Argomento della sua tesi di laurea era quella malattia che spesso coglieva gli svizzeri durante il servizio militare in eserciti stranieri. E’ solo alla fine dell’Ottocento che tale termine esce dai confini medici, più precisamente nel 1874.
Lo ritroviamo come titolo di un poemetto carducciano (Nostalgia, 1874), in cui il poeta ritorna col pensiero alla Maremma e alla sua adolescenza. Se in Malombra(1881) di Fogazzaro, la “nostalgia” è uno stato d’animo di profonda tristezza per la patria lontana (nel romanzo, è la moglie di Steinegge che a New York si ammala di nostalgia), in tempi più moderni, “nostalgia” accoglie, unendoli, due significati: unisce al vagheggiamento della terra perduta anche il sentimento di malinconia struggente per un’epoca che non c’è più o meglio per la giovinezza ch’era in essa contenuta, fino ad accogliere anche l’accezione negativa in senso politico.
Se torniamo al significato introdotto da Giosuè Carducci nel suo poemetto, ci si rende conto che nostalgia è la mancanza di qualcosa che non fa più parte del presente durativo dell’esistenza di un individuo: terra lontana, passato, gioventù, sogni e speranze, mettono in moto la memoria e con essa il tentativo di recuperare quel che è perduto, fissandolo sulla pagina scritta. Ma quanto più è lontano nel tempo quel che si vuole recuperare con la memoria, tanto più difficile risulterà l’oggettivazione di tale operazione (2).
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(1) Cfr. Cortellazzo-Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, 3/I-N. Bologna, Zanichelli, 1983, p. 810.
(2) Le informazioni sono tratte da « La memoria ritrovata in Cesare Pavese. Riflessioni su La luna e i falò a confronto con Il Quartiere di Vasco Pratolini», in : Jacqueline SPACCINI, Aveva il viso di pietra scolpita. Cinque saggi sull'opera di Cesare Pavese. Roma, Aracne editrice, 2010, pp. 15-16.
Il film Ingloriousus Basterds di Quentin Tarantino mi offre la possibilità di parlare di gesti. Più particolarmente, dei gesti delle dita che indicano i numeri e che come sappiamo (ma la mia è una conoscenza molto limitata) rivelano un'identità se non proprio nazionale, comunque per gruppi di aree geo-linguistiche.
Veniamo al film. Nella sequenza girata in una bettola, tre falsi ufficiali tedeschi (uno solo di loro è realmente tedesco) incontrano un'attrice tedesca (Diana Kruger) che è una spia degli Alleati. Il luogo si scopre essere frequentato da soldati e soprattutto da un attento nazista in grado di riconoscere dall'accento dell'interlocutore la sua provenienza geografica.
Il capitano Archie Hicox (un critico cinematografico sopraffino nel suo Paese, il Regno Unito), incaricato dell'Operazione KINO, è vestito di tutto punto come capitano germanico, ne ha persino la faccia e parla correntemente il tedesco (per me, lo parla benissimo), ma non convince un "vero" tedesco come l'ufficiale della Gestapo.
Alla domanda Lei, Capitano, da dove proviene?, riesce a cavarsela declinando i suoi natali in un remoto (probabilmente inventato) paesino montano (penso a certi italiani del Trentino Alto Adige che quando parlano italiano sembrano austriaci)... Ma poi commette un errore grave, questo:
Vedete le dita? Ha appena ordinato tre whisky. Ha sollevato l'indice, il medio e l'anulare.